domenica 10 marzo 2013







"Trieste Loves Jazz" International Jazz Festival

"3" di E. M. Signorelli

Ermanno Maria Signorelli (chitarra classica)
Ares Tavolazzi (contrabbasso)
Lele Barbieri (batteria)
La chitarra “classica” nel nostro tempo

Il mio scopo è di dare continuità storica e artistica alla chitarra classica rivalutando le sue preziose potenzialità espressive, per poterla ricollocare a pieno in dinamiche musicali tipiche del nostro tempo.
Non semplicemente la trasposizione di tecniche chitarristiche moderne  che utilizzano la sonorità della chitarra classica, ma lo sviluppo e la maturazione di un’identità musicale che va ricercata proprio nel rispetto dell’approccio a questo strumento.
Quindi, una coesione di vari elementi musicali, presenti e passati, legati all’idea di una “grande madre” culturale che unisca le nostre radici musicali ai linguaggi contemporanei.
"A proposito di Jazz..." di e con Gerlando Gatto

Ermanno Maria Signorelli si confessa: anche nella musica avanza la globalizzazione.

A colloquio con l’eccellente chitarrista

Ermanno Maria Signorelli è senza alcun dubbio un personaggio di primissimo piano nel mondo musicale non solo per l’eccellenza della sua musica ma anche per la lucidità e l’estrema intelligenza con cui affronta le problematiche che man mano si pongono. Ne abbiamo un’ulteriore conferma nell’intervista che vi proponiamo qui di seguito.

- Come valuti l'attuale panorama jazzistico internazionale?
 
A dire il vero mi sembra vivace e stantio nello stesso tempo. Vivace perché accadono molte cose, stantio perchè basta aver fruito degli ultimi vent’anni di jazz per rendersi conto che bene o male sentiamo quasi sempre gli stessi grossi nomi: Jarrett, Steve Coleman, Metheny, Lovano, Scofield, per citarne qualcuno, e che i progetti che portano in giro sono più o meno gli stessi, forse anche per fatti meramente commerciali. Ogni tanto si aggiunge qualche giovane talento, ma che comunque non si discosta, per stile e per modo, poi così tanto.
Trovo che la globalizzazione si stia facendo sentire anche nella musica, compattando tutto in un unico sentire. Da una parte mi sembra cosa buona, così spero cessino quelle insopportabili mode che hanno visto, per esempio, quel “povero martire” di Astor Piazzola e il suo tango in mille salse e intingoli. Mode come lo yoga, il training autogeno, la salsa, il merenghe e chi più ne ha più ne metta, che hanno tentato, inutilmente, di colmare quella pesantezza e crisi di identità tutta europea e occidentale. Dall’altra parte, quasi certamente, credo ci si debba abituare all’idea di un mondo che si esprima in un solo respiro culturale, spero non in una omologazione intesa come mancanza di autenticità e appiattimento.

- Più in particolare, come vedi la situazione del jazz italiano?
 
Caro Gerlando, non so perché, ma questa tua domanda mi richiama alla memoria, in un tiepido passato quando negli anni ’60 ero bambino, quelle trasmissioni televisive Rai nelle quali il caro amico Franco Cerri, tra una pubblicità e l’altra, si apprestava, in una sorta di didatta-pedagogista, a erudire il popolo italiano verso la musica jazz. Da allora si sono fatti grandi passi in avanti: si è completamente assimilata la cultura americana e il linguaggio jazzistico, e da un po’ di anni a questa parte si è riusciti, per lo meno per alcuni, a dire la “nostra”, e in tal senso a suscitare interesse anche fuori dell’Italia. Approfitto dello spazio che mi dai per togliermi qualche sassolino dalla scarpa e porre l’accento, chiaramente in modo negativo, su quei progetti da tempo in voga che vedono molti bravi musicisti alle prese con rifacimenti e commistioni tra musica jazz e musica leggera. Come in una incapacità di assunzione delle proprie responsabilità, si asseconda e addirittura si aiuta quel mondo che, nel corso degli ultimi 50 anni, si è appropriato di quasi tutti gli spazi culturali del nostro Paese. In una specie di sindrome di Stoccolma, in cui la vittima s’innamora del proprio carnefice, e invece di prendere le opportune distanze, ci si dimentica dei sacrifici fatti e si donano, per quattro soldi, grandi competenze favorendo i vari “nani” della musica. Persone di bassa “statura” culturale, che si vedono conferire lauree “honoris causa”, alcuni addirittura docenti nelle, oramai prive di ogni ritegno e serietà, università italiane, veri e propri emissari di pochezza e mediocrità. Se poi, e concludo, vogliamo guardarci un po’ indietro, con un minimo di dignità, possiamo ripescare nei grandi musicisti, molto più moderni, per scrittura e intuizione, di tanti contemporanei, come Scarlatti, Paisiello, Cimarosa, Rossini, Mascagni e altri. Se ne siamo capaci!

- Secondo Te è possibile parlare di un "jazz italiano"?
Certamente si! In Italia ci sono grandi musicisti e l’arte dell’improvvisazione appare nel nostro Paese da quando il musicista, nel passato, doveva qualificare il proprio intervento durante le celebrazioni liturgiche, e poi basti pensare all’improvvisazione contrappuntistica del barocco, quella romantica e impressionista. Insomma, il jazz inteso come atto improvvisatorio, in Italia è sempre esistito. Desidero menzionare un musicista con cui ho avuto il piacere di studiare una ventina d’anni fa, veramente intelligente, che ha saputo saggiamente coniugare la tradizione jazzistica del “Nuovo mondo” con il grande patrimonio culturale italiano ed europeo: Franco D’Andrea.

- E veniamo a Te, alla Tua musica: come è cambiata nel corso degli anni?
La mia musica è cambiata insieme ai mutamenti avvenuti dentro di me. Il desiderio di appartenenza, la nascita di un figlio e gli affetti che vai via via consolidando, tendono ad aprirti nuovi luoghi espressivi. Luoghi nei quali il pensiero di te stesso lo ritrovi in una piena interazione e continuità con gli altri. Il cambiamento più evidente è stato quando, in una profonda crisi intesa come passaggio evolutivo, la chitarra elettrica mi iniziò a diventare particolarmente stretta e non più tramite ideale, per letteratura, suono e potenzialità, dei miei pensieri più intimi. Il riprendere in mano pienamente la chitarra classica, il cui suono mi ha catturato fin dai primi anni di vita, rappresentava il modo per sentirmi ricollocato, in termini di spazio e tempo, in un contesto storico molto più ampio che mi permettesse di conquistare quel senso di appartenenza e continuità “culturale” che stavo lentamente perdendo.
La mia più grande sfida, attualmente, consiste nel cercare il modo di trovare la giusta collocazione della chitarra classica in dinamiche del nostro tempo, in linguaggi tipici della musica contemporanea applicata alle tecniche peculiari dello strumento classico. In sostanza, mi piace l’idea di suonare brani che vanno dai maestri del ‘500, passando da De Visée, Roncalli, Weiss, e Bach per arrivare a Malipiero, Maderna, Coltrane e Davis.


- Quali sono gli elementi che maggiormente hanno concorso a determinarla così com'è oggi?
L’elemento fondamentale è stato l’aver attuato concretamente un progetto musicale in acustico.
Questa ricerca comanda di metterti completamente in gioco in una logica scevra da elementi artificiali, come l’utilizzo dell’elettronica da me già in passato sperimentata. Ti apre spazi espressivi nei quali si può riuscire a dare forma ai silenzi che paradossalmente possono diventare, superando il primato del suono, in una moltiplicazione di reazioni emotive, l’elemento dominante del discorso.

- Quanto ami "raccontarti " in musica?
 Mi racconto totalmente attraverso la musica che faccio, e la cosa sorprendente è che le mie composizioni mi aiutano a capire me stesso. E’ una sorta di staffetta in cui il testimone, le mie emozioni, passano alla musica e arrivano fuori. Il risultato è preciso e determinato nonostante costituisca la sommatoria di contraddizioni, paure, tormenti che caratterizzano me e probabilmente qualsiasi altro individuo. “Dove tutti urlano non c’è voce che basti per farsi sentire” (F. Costantini), forse l’unico modo per raccontare se stessi e per farsi ascoltare è la musica.

- Quanto ha influito sulla tua formazione di musicista l'essere meridionale e napoletano?

 Le mie origini hanno certamente, in parte, influito sulla mia formazione, entrando in contatto, però, con altri punti di vista culturali. Avendo vissuto in Francia, a Milano e attualmente a Padova, ho avviato un processo di interiorizzazione di più elementi culturali che si sono combinati in una sintesi a me confacente e positiva. Credo, altresì, che l’essere di origine partenopea abbia influito sulla mia scrittura musicale, dove presto particolare attenzione al senso melodico, forse grande eredità del melodramma italiano e della canzone napoletana, in modo diretto. Caro Gerlando, ti confesso, e mi scuso per la sfrontatezza, che mi mancano molto i “friarielli” che fanno tanto bene al palato e allo spirito.
- Qual è la "collaborazione" che ricordi più volentieri?
 La collaborazione che più mi ha emozionato e che ancora oggi ricordo piacevolmente è stata quella con Reggie Workman, con cui ho tenuto alcuni concerti negli anni 80 nella ex Yugoslavia. La cosa che più mi colpiva era suonare con il contrabbassista che aveva inciso, nel 1961, con il quartetto di Coltrane l’album “Impressions” insieme a McCoy Tyner ed Elvin Jones. Incredibilmente, stavo partecipando ad una performance con un musicista, particolarmente trainante, che veramente aveva vissuto il periodo, capitanato da John Coltrane, in cui il jazz determinava la forte rottura con il passato dirigendosi verso l’improvvisazione modale. Periodo storico, non direttamente vissuto dalla mia generazione, ma solamente ereditato come bene dal passato.
- E' corretto affermare che soprattutto nel tuo ultimo lavoro discografico?
 "3" si avverte ben presente il richiamo alle concezioni di Bill Evans?
Questo accostamento è in parte corretto, in quanto alcuni brani del mio ultimo lavoro discografico, per esempio “Trieste”, ricordano la compostezza formale, quasi in punta di piedi, delle composizioni in 3/4 di Bill Evans. Tuttavia, credo che la grandezza di questo musicista non sia tanto nella gestione rivoluzionaria del trio, invasa da grandi oscillazioni di dinamica, ma quanto nella profonda ricerca armonica particolarmente originale che possiamo ritrovare nelle sue composizioni.
Nel micro-cosmo in cui mi muovo e, quindi già lusingato di questo avvicinamento al grande Bill Evans, ritengo che la mia musica si manifesti in un concetto meno formale e più istintivo, come in un mantice che in apertura e chiusura crei continue oscillazioni istantanee sensitive.

- Cosa c'è nel futuro di Ermanno Maria Signorelli?
 
C’è un grande desiderio di suonare perché, finalmente, da pochi anni a questa parte, ho capito con chiarezza e consapevolezza a quale ruolo di “narratore” sono chiamato a rispondere.
Voglio pensare che sia una grande responsabilità, perché nel momento in cui chi ti ascolta ed entra in forte sintonia con te fino ad emozionarsi, è come se si facesse prendere per mano e portare in aree espressive di pura gratuità, dimenticandosi per un istante di essere spettatore e vivendo da protagonista quello che si sta facendo. E questo per me è un grande valore.
In un futuro vicino, vorrei, insieme ad Ares Tavolazzi e Lele Barbieri, registrare un nuovo cd. C’è l’idea di vederci a casa mia, visto che ora vivo in una zona tranquilla di campagna, per passare qualche giorno insieme e pensare a quale direzione musicale si intenda prendere.
Nel frattempo stiamo portando in giro per l’Italia il nostro ultimo lavoro “3” che è il frutto di anni di concerti e di una grande voglia di stare assieme.
In cantiere ho anche un progetto molto ambizioso, un cd di chitarra solo, e in questo l’etichetta “Blue Serge” con cui lavoro, nella figura di Sergio Cossu, sta spingendo da tempo.